16 ottobre 1943: il tempo non cancelli quel che è stato

Dopo l’articolo su Marzabotto del nostro Presidente on. Cosimo Faggiano  e quello di Concetta Somma sul valore del lavoro ieri e oggi, pubblichiamo oggi un intervento dell’avv. Fernando Orsini  sul rastrellamento effettuato dai nazisti Roma il 16 ottobre del 1943. 

Sabato 16 ottobre 1943, una giornata di pioggia, una data che non solo Roma ed i romani, ma tutt’Italia potrà mai dimenticare. Un giorno che rimarrà indelebilmente impresso nella memoria nazionale come poche altre date. Dall’alba di quella mattina, in poche ore, un intero quartiere di Roma, il quartiere ebraico, fu messo a ferro e fuoco dai nazisti di stanza nella capitale, aiutati da spie prezzolate e dagli scherani fascisti. In appena nove ore, 1023 tra donne, uomini e bambini, la cui unica colpa era quella di essere ebrei, furono strappati con forza ai loro affetti. Il numero comprende anche una badante non ebrea, Carolina Milani, che non volle lasciare, condividendone purtroppo la sorte, l’anziana ebrea di cui si prendeva cura ed un neonato al Collegio militare (divenuto il centro di raccolta prima della deportazione) partorito da Marcella Perugia. Quel neonato, che vide la luce nella notte fra il sabato e la domenica, non ebbe mai nome e rappresenta ancora oggi il più piccolo essere umano della barbarie nazista. Furono caricati con violenza su dei treni che non riuscivano a contenerli tutti come e peggio del bestiame e da lì raggiunsero una delle destinazioni più disumane che la Storia possa annoverare, il campo di concentramento nazista di Auschwitz. Furono ore drammatiche perché intere famiglie furono smembrate, alcuni componenti delle quali trovarono la morte quello stesso giorno. Da quell’inferno, fecero ritorno solo in 16, quindici uomini ed una sola donna, Settimia Spizzichino, mentre la maggior parte, compresi gli oltre 200 bambini, finirono la loro esistenza nei forni crematori. Anche due altre donne, Fiorella Anticoli ed Enrica Spizzichino furono liberate, ma per le condizioni in cui erano state ridotte, morirono qualche giorno dopo il ritorno. Coloro che riuscirono a ritornare, per anni non sono stati in grado di raccontare niente delle atrocità che avevano vissuto e delle tragedie cui avevano assistito. Come gli ebrei che tornarono dopo la guerra a Gerusalemme, anche quelli di Roma non hanno voluto parlare per diverso tempo perché convinti di essere colpiti da una triplice dannazione: di non essere creduti, di avere un senso di colpa nei confronti di chi non ce l’aveva fatta e per essere sopravvissuti agli orrori cui avevano assistito. Solo dopo il processo Eichmann celebratosi a Gerusalemme nel 1961 sono venute meno i tormentati silenzi e coloro che fecero ritorno dai campi di sterminio nazisti hanno iniziato a raccontare. E dalle loro drammatiche testimonianze abbiamo capito che niente e nessun’altra cosa potrà mai essere paragonata nella storia umana allo sterminio degli ebrei. Della tragedia iniziata quel sabato di ottobre, grande responsabilità è ascrivibile a Benito Mussolini che, anche se deposto da capo del fascismo tre mesi prima, era già stato designato dallo stesso Hitler, sin dal settembre 1943, per guidare la Repubblica Sociale di Salò. Documenti ufficiali ormai acquisiti attestano senza ombra di dubbio che Mussolini il pomeriggio del giorno precedente alla deportazione degli ebrei, venerdì 15 ottobre, incontrò a Gragnano, sede della RSI, prima il generale Karl Wolff e successivamente il console Eitel Friedrich Moellhausen, due fra le massime autorità naziste a Roma. Anche se il duce non ha mai ammesso di aver saputo quel che si stava preparando la mattina successiva, non è fondatamente ipotizzabile che i due suoi interlocutori non gli abbiano fatto il minimo cenno. Come può seriamente pensarsi che il capo della Repubblica di Salò sia stato tenuto all’oscuro della più massiccia deportazione di ebrei operata sul territorio italiano? Non aver mosso un dito per scongiurare quel che il giorno dopo ebbe a verificarsi, non può che significare che una cosa sola: Mussolini fu corresponsabile di quelle atrocità e complice della soluzione finale. Lo era stato con l’emanazione – con il decisivo e  colpevole assenso del re – delle leggi razziali del settembre-novembre 1938 (inequivocabile sotto tale profilo è il discorso tenuto dal duce a Trieste il 18 settembre 1938, come appare in un video dell’Istituto Luce recentemente restaurato), con la fattiva e determinante collaborazione dei suoi collaboratori e facenti parte delle squadre della morte che agivano indisturbati nelle carceri e nelle ville in cui si torturavano gli oppositori antifascisti e gli ebrei. Erano ebrei e solo per questo furono sradicati dalle loro case e dai loro affetti, divisi fra loro, torturati, marchiati come bestie da macello, sottoposti ai più umilianti ed agghiaccianti esperimenti che la malvagità nazista abbia potuto praticare. Morirono malnutriti, per gli stenti e per il freddo, furono gasati nei forni dell’orrore, la loro anima strappata dal corpo. Qualche anno fa sono stato testimone nella scuola elementare “Giovanni XXIII” della visita di Nando Tagliacozzo, un ingegnere ebreo romano, che ha raccontato ai ragazzi la sua drammatica esperienza di quel giorno. A volte – raccontò Nando – il destino si ferma a due metri da te, dove ci sono tua sorella di otto anni e tua nonna. Quello stesso destino che se le portò via con sé, ad Auschwitz, per sempre. Tu – raccontava con un groppo in gola Tagliacozzo – sei ad un soffio da loro, insieme ai tuoi genitori, e solo una porta ti divide dalla morte. Quel destino che ti lascia vivere, forse scegliendoti come testimone per il futuro, perché tu lo possa raccontare a quelli che verranno dopo. Un racconto drammatico il suo, ma un racconto di vita, un racconto in memoria di migliaia di ebrei, di oltre 200 bambini, molti dei quali avevano la sua stessa età quando furono deportati.  Un racconto straziante quello di Tagliacozzo che tutti dovremmo ascoltare, per non dimenticare quel che è stato non millenni fa, ma solo l’altro ieri. Certo, la storia del rastrellamento del 16 ottobre non si esaurisce solo con la crudeltà e l’orrore nazista. Non v’è dubbio che quella sia stata anche una storia fatta di migliaia di persone che hanno reagito anche a rischio della loro vita contro i dettami del nazifascismo ed esercitato una forma elevata di senso etico. Molti ebrei riuscirono a sfuggire alla caccia all’uomo organizzata dai nazifascisti e al riguardo decisivi furono il ruolo delle istituzioni e l’atteggiamento della cittadinanza nelle sue diverse declinazioni tra i poli opposti dell’accoglienza e della solidarietà e del collaborazionismo e della delazione. Non si dimentichi che oggi i “Giusti tra le Nazioni” italiani, persone che si erano distinte per la loro generosità nei confronti degli ebrei durante la guerra, riconosciuti da Yad Vashem, l’Istituto storico e Memoriale di Gerusalemme, hanno raggiunto il numero di 682 e dobbiamo perciò guardare ancor oggi con riverenza a uomini e donne, religiosi e militari, in gran parte antifascisti, che hanno considerato la cura degli altri un valore assoluto, rivoluzionando il pensiero comune di allora, fatto di paura, timore, diffidenza e assenza di umanità. Sta a noi tenerlo sempre a mente in tempi travagliati e perigliosi come quelli che stiamo attraversando e tramandarlo a coloro che verranno dopo di noi. Perché anche loro comprendano ciò che è accaduto e far sì che quel sabato di 74 anni fa non venga rimosso né dimenticato. O, peggio ancora, dato in pasto ai negazionisti.

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